TRIBUNALE ORDINARIO DI L’AQUILA – Sezione Specializzata in materia di Impresa – Sent. n. 444/2022
8 Luglio 2022
C. Cass., Ord. n. 19621/2022: il lavoratore che presta la propria attività lavorativa in un ambiente insalubre ha diritto al risarcimento del danno morale
21 Luglio 2022Con la pronuncia in epigrafe indicata la Suprema Corte è intervenuta delineando le linee guida che il Giudice penale dovrà adoperare al fine di disporre la misura della sospensione del procedimento con messa alla prova, così come definita ex art. 168-bis c.p..
Tale norma, invero, prevede che “Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta…”.
Tale norma, pertanto prevede una causa di estinzione del reato qualora la prova alla quale sia stato sottoposto l’imputato sia superata con esito positivo.
Ebbene, nell’ambito della sentenza indicata la Corte di legittimità è stata chiamata a delineare i confini applicativi della normativa in esame, con specifico riferimento ai criteri di durata della prova.
Nello specifico la questione in esame prendeva le mosse da un’ordinanza emessa dal GIP del Tribunale di Como con cui era stata disposta l’ammissione alla messa alla prova dell’imputato, a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, su sua richiesta e sussistendone i presupposti, imponendo allo stesso 240 giorni di lavoro di pubblica utilità, corrispondenti a 480 ore di lavoro, parametrando tale durata alla sanzione già determinata con il decreto penale di condanna, ritenuta la mancanza di una disciplina specifica e considerata l’applicazione analogica dei parametri indicati dall’art. 133 c.p., relativo alla gravità del reato commesso.
Avverso il provvedimento del GIP l’imputato proponeva ricorso deducendo la non idoneità della durata della messa alla prova così come determinata nella richiamata ordinanza. Il Giudice, tuttavia, anche in questo caso, riteneva idonea la durata così come determinata dal GIP.
Il ricorrente denuncia, pertanto, l’erronea applicazione dell’art.133 c.p., pure riconosciuto dal GIP come indice normativo-valutativo utile a stabilire la durata del lavoro di pubblica utilità nella messa alla prova, e l’adozione, invece, di un metodo “vincolato” di parametrazione della misura di tale durata, agganciato automaticamente alla sanzione indicata nel decreto penale di condanna, pur opposto dall’imputato.
Orbene, la Suprema Corte interrogata sulla questione si è espressa determinando che le “…disposizioni normative rilevanti [sanciscono] che la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilità costituisce l’essenza afflittiva del sistema della sospensione con messa alla prova, sicchè solo il riferimento ai parametri di cui all’art. 133 c.p. consente di individualizzare la scelta del trattamento penale complessivo di probation. Ed infatti:
– l’art. 464-bis, comma 4, c.p.p. prevede che, alla richiesta formulata dall’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma, che prevede: le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonchè del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonchè le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale;
– l’art. 464-bis, comma 3, c.p.p. stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art.133 c.p., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati;
– l’art. 168-bis, comma 3, c.p. prevede che la concessione della messa alla prova è, inoltre, subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, che consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato; la prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
Dall’analisi combinata delle disposizioni suddette emerge nettamente la correttezza delle ragioni ispiratrici della giurisprudenza di legittimità richiamata, dovendosi ribadire, pertanto, che il criterio più affidabile in tema di determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità, fulcro del programma di trattamento connesso al procedimento di messa alla prova, è quello dell’applicazione degli indici dettati dall’art. 133 c.p., in una necessaria loro valutazione complessiva, sia dal punto di vista oggettivo (la gravità del reato) che soggettivo (il grado di colpevolezza e le esigenze di risocializzazione)…”.
La Suprema Corte, pertanto, in accoglimento del ricorso proposto dall’imputato ha chiarito come i parametri di cui all’art. 133 c.p., relativi alla gradazione del reato in base alla gravità dello stesso, siano quelli da tenere in stretta considerazione al fine di definire la durata della messa alla prova.