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31 Luglio 2024La Suprema Corte ha recentemente dettato il seguente principio di diritto “Nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili” (Cassazione civ., Sez. lav., ordinanza 12 luglio 2024, n. 19196).
La pronuncia trae origine dal seguente caso concreto: M.M. – infermiera del reparto di psichiatria dell’ASL – aveva adito il Tribunale lamentando di avere subito da parte del responsabile del medesimo reparto condotte sia di molestia sessuale sia di mobbing, venendo poi trasferita a far tempo dal 1° febbraio 2007 presso altro distretto.
Aveva quindi chiesto, in primo luogo, di essere reintegrata nel posto di lavoro precedentemente occupato e, in secondo luogo, di condannare il responsabile del reparto ed ASL in solido, ex artt. 1228, 2043, 2049, 2087c.c., al risarcimento dei danni biologico, morale, esistenziale nonché del danno alla professionalità – quantificati in euro 450.000,00 – nonché la condanna della sola ASL alla corresponsione della somma di euro 22.000,00 a titolo di risarcimento danno per la mancata remunerazione di lavoro straordinario non svolto, a causa dell’illegittimo trasferimento e demansionamento, e delle indennità festive.
Il giudizio di prime cure aveva condotto alla pronuncia:
− della sentenza non definitiva, con la quale ASL era stata condannata a reintegrare M.M. nelle mansioni precedentemente svolte;
− della sentenza definitiva che, all’esito dell’espletamento di una CTU, aveva respinto le domande risarcitorie proposte da M.M., pur condannando ASL alla rifusione in favore di quest’ultima della integralità delle spese di lite, compensate tra le altre parti.
La Corte d’appello ha accolto unicamente l’appello proposto da ASL avverso la sentenza in relazione alla statuizione sulle spese di lite, rigettando per il resto i gravami.
Nel pronunciarsi la la S.C. ha richiamato il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui, nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico – fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
Si è, infatti, osservato che alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si pone normalmente l’art. 2087 c.c., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, la cui tutela trova diretto riscontro nella Carta costituzionale agli artt. 2, 3 e 32 Cost. Riflesso di tale ricostruzione è l’affermazione per cui, se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultino, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati.
In piena continuità con tale orientamento, la S.C. ha chiarito che – costituendo l’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro – il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. straining), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Ulteriormente, è stato chiarito, anche recentemente, che la nozione di mobbing – come quella di straining – è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro; pertanto, la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento, ma non sull’an dello stesso, che prescinde dal dolo o dalla colpa datoriale.
Logica ricaduta, più squisitamente processuale, di tali premesse è il principio per cui – essendo lo straining una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie – la prospettazione solo in appello di tale fenomeno, se nel ricorso di primo grado gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati mobbing, non integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute (Cass., Sez. lav.,o rdinanza n. 18164 del 10/7/2018), e ciò in quanto – si ribadisce – ad essere comunque allegata dal lavoratore che lamenti la lesione della propria salute e/o dignità è – e rimane – la violazione della regola generale di cui all’art. 2087 c.c., al di là della categorizzazione che di tale lesione si voglia fornire nell’illustrazione della domanda.
Avv. Amedeo Di Odoardo